Nell’Ipermodernità il ruolo delle persone, come consumatori, è cambiato profondamente. Da quando hanno avuto a disposizione uno strumento come i social media il loro potere di negoziazione rispetto ai brand è aumentato e, da ricettori passivi di un messaggio, oggi agiscono sul loro stesso piano. I social hanno, di fatto, trasformato un rapporto asimmetrico in un rapporto paritario e collaborativo al punto, in cui siamo oggi, in cui le stesse persone si comportano a tutti gli effetti come un brand. Scelgono o creano i contenuti da postare sui loro profili, influenzano le scelte di consumo dei loro follower, vendono prodotti e servizi come retailer, promuovono marchi e contribuiscono in prima persona alla creazione dell’identità dei brand di cui si fanno portavoce.
Dalla comparsa dei primi social le definizioni si sono sprecate; sono stati chiamati consum-autori, consum-attori, prosumer, ecc. Tutti termini che stavano a indicare il nuovo ruolo proattivo che avevano assunto rispetto al consumo. Seguendo di pari passo l’evoluzione dell’ecosistema digitale sono diventati Influencer e adesso – grazie alla diffusione e al successo di social come TikTok – si sono trasformati in Creator o Talent, nuovi termini che indicano la loro capacità di creare contenuti che generano audience e che i brand utilizzano alla stregua di veri e propri consulenti di comunicazione.
Le persone, quindi, entrano di diritto all’interno dei processi di creazione dello storytelling dei brand. Detengono un pezzo o pezzi del suo capitale narrativo, lo evolvono e lo riscrivono continuamente – e spesso indipendentemente – dalla volontà dei marchi stessi. I brand devono tenere conto di questa dinamica ed essere capaci di inglobarla all’interno delle loro scelte strategiche, riconoscendo alle persone lo status di storyholder. Quanto più, infatti, saranno in grado di incarnare valori identitari e sentiti dal loro pubblico, tanto più le persone saranno disposte a diffondere spontaneamente il loro messaggio e a trasformarsi naturalmente in media.